Portato a morire in un giardinetto e ora spunta il «caporalato» cinese

La storia di un operaio clandestino lasciato agonizzante su una panchina. Due indagati per omicidio colposo

Un capannone cinese

Un capannone cinese

Prato, 8 gennaio 20167 - Lo hanno portato a morire a Prato dopo che era caduto da una scala durante alcuni lavori di ristrutturazione in un capannone in provincia di Bologna. Invece di chiamare i soccorsi, i colleghi hanno preferito rimetterlo in macchina agonizzante e abbandonarlo come se fosse un animale su una panchina  in alcuni giardinetti vicino a via Pistoiese. Solo dopo un’ora e quaranta minuti dall’incidente hanno chiamato il 118 a Prato. Troppo tardi: Wenquan Lin, operaio edile clandestino  e lavoratore a nero, è morto all’ospedale il giorno successivo dopo ventiquattro ore di agonia. Un mistero su cui hanno indagato prima la procura toscana, poi quella emiliana e dalla quale emerge un elemento nuovo e inquietante sull’«universo» orientale: l’ombra del caporalato. 

La triste vicenda risale al novembre del 2015 quando Lin viene portato da Prato a Bologna, in località Funo, per eseguire alcuni lavori di ristrutturazione in un capannone di connazionali. Lin, clandestino, è senza lavoro da tempo, si rivolge ad alcuni conoscenti per essere messo in contatto con altri connazionali per procurargli un lavoro. La mattina del 20 novembre fissano un appuntamento e in cinque partono alla volta di Bologna. Nel magazzino Lin si mette al lavoro: sale su una scala ed esegue interventi di verniciatura a una struttura metallica che si trova sul soffitto. Il cinese si trova a lavorare a un’altezza di tre metri, su una scala traballante e con il rullo per verniciare in mano. A un certo punto perde l’equilibrio e cade sbattendo la testa con violenza, prima sulla parete e poi a terra. Nel capannone scatta il panico: Lin ha perso i sensi (si scoprirà poi che era già in coma). Che fare? Anziché chiamare i soccorsi sul posto, lo rimettono sul camioncino e lo riportano a Prato. Passa un’ora e quaranta: il cinese viene lasciato su una panchina nei giardini vicino alle poste di via Pistoiese, è agonizzante. E’ a quel punto che uno dei colleghi con il suo cellulare, si avvicina a una donna italiana e le chiede di chiamare il 118. La donna vista la gravità della situazione si presta a fare la telefonata ai soccorsi usando il cellulare di Wei Lao. Lin viene soccorso da un’ambulanza, ma per lui non c’è più nulla da fare. Il giorno successivo muore all’ospedale di Prato dopo un giorno di coma. Viene informata la procura che dispone l’autopsia. L’esame stabilisce che Lin è morto per i gravi traumi alla testa. La procura indaga e risale all’intestatario del cellulare da cui è partita la telefonata al 118: è Wei Lao. E’ lui a raccontare dell’incidente nel capannone a Bologna e della decisione del caposquadra, Qiliu Chen, e del «capo nero» (una sorta di caporale, chiamato così dai cinesi), Chaolong Ni, di riportare Lin a Prato per sviare i controlli dal magazzino e dal lavoro in nero. Il fascicolo si sposta a Bologna e vengono indagati per omicidio colposo i due cinesi, ora difesi dall’avvocato Tiziano Veltri. Il sostituto procuratore Beatrice Ronchi ha chiuso le indagini prima di Natale. Dal racconto di Wei emerge come esista a Prato una sorta di caporalato cinese – elemento fino a ora mai emerso – di cosiddetti «capi neri» (intermediari) che assoldano operai a nero (e spesso anche clandestini) per essere portati a lavorare senza nessun tipo di tutela, previdenziale o di sicurezza, nei capannoni. Nella ricostruzione del cinese, i quattro, più un autista, sarebbero partiti insieme da Prato per Bologna. Sarebbero stati il capo nero e il caposquadra – secondo il cinese – a decidere di riportare il compagno a Prato.

A chiusura indagini l’avvocato Veltri ha svolto alcune indagini difensive dalla quali emergerebbe che il vero «capo nero» non è Chaolong Ni, ma lo stesso Wei. Un fatto che riporta la mente alle morti misteriose avvenute a Prato qualche anno fa, quando furono ritrovati cadaveri di cinesi gettati in strada, o peggio nei cassonetti. Morti avvenute sicuramente sui luoghi di lavoro e mai denunciate dai titolari o gestori che – si sospetta – abbiano preferito disfarsi dei cadaveri gettandoli in strada come sacchi dell’immondizia. Un’usanza a cui si è pensato anche quando nel novembre del 2013 fu trovato il corpo di una donna sepolto in un campo a Iolo. Si scoprì che si trattava di una orientale, mai identificata. Forse, una donna morta in uno dei tanti capannoni anonimi del Macrolotto mentre era al lavoro.

Laura Natoli