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Che cosa si sono detti davvero Renzi e Crocetta

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Con quel nome e quel cognome che porta sarebbe sin troppo facile ironizzare sul governatore uscente della Sicilia, che nei suoi anni di guida alla regione ha cambiato più assessori – cinquantesette – che scarpe e cravatte.

Rosario Crocetta è passato in un istante dal massimo della conflittualità al massimo della collaborazione con Matteo Renzi. È bastato che il segretario del Pd si decidesse finalmente a riceverlo, e non fargli più fare anticamera, metaforica o reale che fosse, o non si facesse più negare al telefono, al telefonino, al megafono, come si chiama il movimento o la lista del quasi ex governatore, perché tornassero fra di loro la pace e il rispetto.

Il fantasmagorico Crocetta ha rinunciato d’incanto alle primarie che reclamava con tanto di statuto del Pd in mano, ma che nei mesi scorsi aveva sdegnosamente rifiutato a chi gliele aveva offerte all’interno del partito, per riconoscerne ormai la impraticabilità e garantire l’appoggio al candidato alla sua successione, scelto in sostanza dal sindaco quasi a vita di Palermo Leoluca Orlando, da Renzi e da Angelino Alfano: il rettore dell’Università palermitana Fabrizio Micari, considerato sino al giorno prima inadatto alla corsa e alla fine risparmiato generosamente alla figuraccia di prendere meno voti di lui in una contesa diretta.

Ora il professore Micari, per quanto appeso ancora ai tentennamenti di Giuliano Pisapia, ha un solo concorrente a sinistra: Claudio Fava, le cui probabilità di elezione sono pari allo zero. In compenso, potrebbe soddisfare l’attesa spasmodica della sconfitta politica di Renzi, che accomuna, tra Roma – zona Prati – e Bettola, Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani.

A sentire o leggere i retroscenisti, le mele con le quali il segretario del Pd ha ingolosito Crocetta sono state la promessa di un incarico dirigenziale nel partito e qualche seggio per i suoi al Senato, dove peraltro sembra che lo stesso Renzi voglia candidarsi per fare rimpiangere all’assemblea di Palazzo Madama la prospettiva bocciata nel referendum del 4 dicembre di trasformarla in una specie di dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci, sprovvista del potere di dare o negare la fiducia ai governi, ma onorata dalla sopravvivenza dei superstiti senatori a vita.

Il senatore Renzi con le mani in tasca mentre parla, i pantaloni stretti alla caviglia, il petto in fuori sarebbe obiettivamente uno spettacolo imperdibile al Senato, dove già egli esordì come presidente del Consiglio nel 2014 annunciando che quella da lui chiesta per il proprio governo sarebbe stata l’ultima fiducia di quella pletorica e assonnata assemblea: l’ultima per quel giorno.

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